Calvino, Heidegger e le bugie del tempo
Avevamo lasciato il Nobel 2003 J.M. Cotzee allo splendido, sottovalutato L’infanzia di Gesù del 2013 che aveva confermato – a distanza di tempo e nell’arco di una produzione letteraria non densissima data anche la sua intensa attività di saggista, traduttore e accademico – le qualità narrative espresse in Aspettando i barbari (1980) e Vergogna (1999), ritroviamo ora le tematiche a lui care (insieme al fantasma dell’alter ego seriale Elizabeth Costello) nelle lucide, intense, asciutte storie di Bugie e altri racconti morali (Einaudi 2019). Resoconti-riflessioni sullo scorrere ineluttabile del tempo, la condizione senile di chi, quasi disperatamente, non intende comunque rinunciare a vivere anche una residua, vitalistica, anticonformista e “scandalosa” sessualità, l’imperativo etico dell’opzione esistenziale (che significa scegliere? E alla fine non si è, forse, sempre scelti?), l’avvilente, squallida prevalenza del dovere sulla forza gioiosa dell’amore, il valore definitivo e inalienabile delle parole, di una Letteratura che salva e (se?) scrive di tutti gli esseri insignificanti altrimenti destinati a venir dimenticati: non ultimi quegli animali spesso presenti nell’opera dello scrittore (cfr. La vita degli animali, 1999) i quali – asserviti “nel loro povero, svantaggiato accesso al mondo” (Heidegger) ad un appetito di sangue – non possono “agire, ma solo comportarsi all’interno di una dimensione sensoriale che li rende tuttavia capaci di sentire il dolore” (Cartesio) esponendoli all’istinto “barbarico” di un uomo che ne perpetra sistematicamente, senza “vergogna”, il massacro (Mattatoio di vetro)[1]. Così – in uno stile che ricorre al presente di contemporaneità e al punto di vista multiplo interno per conferire immediatezza alla pagina, tra fulminei interscambi di ottica personaggio/narratore e vertiginosa ricchezza di citazioni letterarie (Čechov, Dostoevskij, l’amato Kafka) – un Cane con occhi gialli carichi di odio “puro e assoluto”, emblema zoomorfo dell’insensibilità bestiale dei suoi padroni, minaccia ossessivamente una passante abituale (come gli squilli di telefono tormentavano il protagonista del calviniano In una rete di linee che si allacciano)[2], la smarrita Vanità di una sessantacinquenne vedova “imbellettata” (“bionda, taglio alla moda, sopracciglia scure e labbra corallo”, vuole solo “tornare ad essere guardata come si guarda una donna”) non riceve alcuna umana, doverosa comprensione dalla famiglia che non le perdona lo scarto dalla norma/forma di “uno sguardo inappropriato e insolito”, la testarda, ostinata Elizabeth, scrittrice, deplora (ma che significa esattamente deplorare?) il presente, il corso della storia, le pessime maniere di un mondo tetro, disumano, antisociale. “In attesa recalcitrante della pozione fatale, come un nobile romano”, alle prese con due figli pedanti e improvvisamente (troppo) preoccupati della sua salute futura, mentre “le cellule del cervello prendono i colori dell’autunno” e i desideri sono quelli nostalgici di Quando una donna invecchia, continua tenace a credere (benedetto Keats) che solo la scrittura sia “bellezza, equilibrio, chiarezza che insegna a sentire, con la grazia della penna, i movimenti del pensiero”. E nel testo forse più felice della raccolta non manca l’intrigante esperimento metaletterario di un racconto “in fieri” dove il non detto – tra finzione e allusioni, sfacciata sincerità e ipocrisia – è quello di latenti pulsioni sentimentali.
La verità ultima – morale sottesa all’intero libro – è che si muore, si sta morendo e allora non si hanno più scelte, se ne avranno sempre meno sino a quando non ci sarà più nulla da fare. La verità vera è che giunge un momento della vita in cui non si è in condizioni di discutere, di dire no ad un figlio o al ticchettio dell’orologio, di scegliere, di mentire, di negare la realtà che non si accetta. Non rimane che dire sì e ammettere la necessità di chi vuole aiutarci, senza ricorrere alle Bugie. Anzitutto verso se stessi.
[1] Vengono riportati in grassetto i titoli dei racconti N.d.A.
[2] Il lettore lo ricorderà, uno dei memorabili racconti-incipit di Se una notte d’inverno un viaggiatore.
Dono del presente, scommessa per il futuro:
“l'altra scuola” di Eraldo Affinati
Chi accetta/sceglie il “Mestiere dei fiaschi” (splendido il capitolo, pp. 47-48) “offre a tutti le maschere poi le stacca dal volto, disegna e cancella, scolpisce e distrugge, prova le voci, evoca i fantasmi” e, “artigiano del tempo”, vero specialista dell'avventura interiore (prima che di competenze disciplinari), esplora il passato, ricompone il presente ed elabora il domani. In questo senso il libro costituisce una straordinaria riflessione complessiva sul villaggio educativo italiano, troppo spesso precettistico, competitivo, autoritario, pedantesco, non luogo deputato alla trasmissione della conoscenza e della cultura ma sede istituzionale per misurazioni, valutazioni (“tiranniche” secondo A. Del Rey), esperimenti docimologici, prove oggettive che si traducono in “caricatura della meritocrazia” reiterando una “struttura binaria bloccata” sul ruolo frontale contrapposto e non comunicante del professionista che somministra materiale scientifico e del discente il quale, passivo, subisce l'ascolto rispondendo a verifiche modulari raramente calibrate e commisurate alle proprie esigenze profonde di Persona “sacra, solenne e ingiudicabile”. Convinzione radicata dell'autore è che proprio la scuola costituisca, invece, lo spazio privilegiato “per migliorare la qualità delle relazioni umane, piazza di scambi e stupori, riconoscimento e scoperta di ragazzi che hanno bisogno di certezze da distruggere, tesi da contestare, padri da uccidere, nemici da sconfiggere”, strumento decisivo – fra i pochi rimasti – di “resistenza etica” per diagnosticare l'atonia della società contemporanea, contrapporre – ricorrendo alla potente arma del linguaggio, “espressione strutturale e strutturante delle emozioni” – i valori guida di un'esistenza ben spesa (“rigore, coerenza, responsabilità”) ai falsi miti di una precaria contemporaneità e, alla fine, “scendere nella notte spirituale degli adolescenti”, nel loro malessere latente/inconfessato, tanto maggiore quanto più è marcato da miseria e squallore (“Non si può educare solo nella zona di sicurezza”, Bergoglio 2013).
Dolorosamente cosciente che “da una parte e dall'altra del tavolo siamo comunque pezzi mancanti, bobine da sostituire, chiodi da piantare, viti da stringere” e il senso di una vita che si avvia, di un'altra che riprende “tra occasioni sfruttate e combinazioni incontrollabili” assume ragioni se possibile ancora più essenziali e vitali in presenza del disagio, lo scrittore avverte l'urgenza – sull'esempio degli amati Don Bosco e Don Milani (“dicesi maestro chi non ha alcun interesse culturale quando è solo”...con buona pace degli estenuati e conturbanti modelli giovanili decadenti di Mann e Rilke) – di corroborare e saldare la propria proposta didattica alla dolente/indignata attenzione per i “dannati della terra”, i minorenni immigrati non accompagnati vittime di insensibilità, “paura delle contaminazioni e della promiscuità razziale”, abbandonati dalle loro famiglie in mare (non metaforicamente) aperto. Così per il timido e silenzioso Habib (hazaro) e Puja (Teheran), che riesce a leggere Solo e pensoso di Petrarca, per il musulmano bengalese Rehan, che avverte il fascino d Jissah/Gesù e i “festanti, irruenti” egiziani del Delta del Nilo, per Camara “giovane delle pietre insanguinate, dei pensieri in frantumi, dei chiodi sparsi nella sabbia subsahariana” e quanti – tragici, mesti eredi del bambino selvaggio di Lacaune e di quelli ebrei internati nelle anticamere dello sterminio – vivono la vergogna di essere analfabeti nella lingua madre subendo la violenza di non poter progettare un'idea di sé nasce, dopo l'esperienza della “Città dei Ragazzi”, la Penny Wirton, istituto di italiano per extra-comunitari che, sostenuto dalla luce di un affetto e di una missione condivisi (la moglie Anna Luce Lenzi, collaboratrice instancabile) egli dedica al protagonista smarrito e volitivo di una favola di Silvio D'Arzo, che tanto deve all'apprezzamento di Montale e qualcosa a Spoon River: una sorprendente, “non pazza” struttura scolastica divenuta, dopo “gli esordi faticosi, itineranti e precari” (dalla originaria sede romana di S. Saba all'ex Cinodromo con i suoi suoi locali “precipitati dal cielo come meteoriti di Che Guevara e Malcom X” sino all'”ortodosso” Liceo Keplero delle circolari ministeriali e all'ostello universitario di Via De Dominicis) scommessa vinta e circuito di comunità diffuse sull'intero territorio nazionale. In clima (stavamo per scrivere regime, il termine a Penny non piacerebbe) di volontariato gratuito ed entusiasta alla Wirton ti accolgono con un sorriso, non si chiedono permessi di soggiorno (l'istruzione è “di” e “per” tutti, l'accoglienza vera non prevede/ammette schede o moduli), si segnano solo le presenze e anche cinque minuti vanno bene per insegnare a trovare se stessi in un rapporto “uno a uno” al termine del quale il riconoscimento delle vocali, la coniugazione di un verbo affascinante e impervio come il nostro, il corsivo e il lessico arrivano – se arrivano, non è determinante – come traguardi esaltanti e segnali di gratificante emancipazione per chi riesce ad uscire, grazie al potere liberatorio e libertario della parola, da uno stato di intollerabile minorità. Se sbagli non si arrabbiano, se non impari tanto meno, ti stanchi? giochi (magari chiedono di rifare l'esercizio...ci sta) perché quello che conta (e quanto questo vale per la scuola tout court!) è evitare il giudizio per mettere in fuga il pregiudizio, riuscire ad insegnare senza spiegare e ad incoraggiare senza valutare ricorrendo alla Ludodidattica di alfabeti mobili, puzzle interativi, CD inventastorie e “storie arrotolate” e ad una Predidattica informale che si affida a meccanismi associativi, non a processi deduttivi: basta “essere assetati e afferrare nomi e aggettivi come frutti di un albero” per diventare italiani insieme. E' Barbiana, non Collodi. È l'altra scuola di Eraldo Affinati che “nello spettacolo della durata si emoziona, protesta, ama, puntella le stagioni evitando che scorrano come vapori evanescenti, educa per vivere, risana le piaghe, cuce gli strappi, lega il tempo allo spazio e i sogni alla realtà”, consente – pure questo conta – ad un pedagogia d'avanguardia di divenire (ottima) letteratura, nel senso meno retorico del termine, come emerge chiaramente dai passi che abbiamo volutamente riportato. Ci sembra, in proposito, importante sottolineare come, senza che il lettore se ne renda conto, Via dalla pazza classe costituisca anche un ricco, autorevole, prezioso prontuario per avvicinarsi alla letteratura otto-novecentesca che ognuno potrebbe/dovrebbe trasformare in autonomo itinerario di lettura, esaustivo se solo riuscisse a leggere la metà delle opere menzionate...e a vedere alcuni dei non meno fondamentali film citati. Si tratta, evidentemente, di modelli/incontri/riferimenti imprescindibili nella formazione della sua poetica, tutt'altro che sbilanciati – sarebbe lecito attenderselo – sul versante realistico, a meno che ci si metta d'accordo in merito alla categoria narratologica, ma il discorso si farebbe troppo ampio: del resto tutta la “buona prosa” è, o dovrebbe, essere “vera” per Hemingway Dai russi (Tolstoy, “il più grande scrittore insegnante che guarda le sue creature come Dio gli uomini” preferito a Dostoevskij “sconvolto sull'orlo del baratro”, il Cechov dell'inesistente Monaco nero – per riconoscersi i conti con la montaliana ombra bisogna pur farli...voltandosi – Goncarov...Oblomov “fichissimo” per un alunno sedicenne e abbraccio d'obbligo del prof.) agli americani S. Bellow di Herzog, Conrad (d'ufficio), Singer, con il suo “spaesamento ironico”, Yates, D. Thomas, il “miracoloso J. London e il misconosciuto Ph. Levine, senza dimenticare il “pedagogico” McCarthy de La strada, dagli esponenti/testimoni dell'Olocausto (A. Appelfeld, G. Perec, T. Borowski, E. Hillesum) a Kafka, che aiuta i profughi ebrei a Berlino “perché vi si può ricavare più miele che da tutti i fiori di Marienbad”, Bonhoeffer, Paul Celan (“distillano grumi di senso opachi e luminosi le sue liriche, schegge roventi ed enigmatiche”), Breton e i surrealisti, emblemi irriverenti della provocazione contro il sistema (altro termine assai poco amato alla Penny W.), il libico Matar, Camus più del “maestro del sospetto” J.P. Sartre. Fra gli italiani (il sodale M.R. Stern, Pascoli – Italy, evidentemente – Manzoni, il Pirandello dei tanti “Lanternoni “ spenti e dei precari “Lanternini”) ricorderemo solo il tributo, frequente e trasversale, a Leopardi da parte, fra l'altro, di un allievo dell'indimenticabile W. Binni: vittima di un'educazione sbagliata, fu promotore di “un'energia fantastica” contro l'illusoria fiducia in magnifiche sorti progressive e seppe consegnare a ciascuno la speranza in un solidale, non utopistico rapporto con la realtà insieme alla lucida testimonianza di una disperazione mai sterile e renitente, per questo tanto più eroica e propositiva. Nell'impossibilità anche solo di accennare alle numerose pellicole dedicate alla diversità, alla denuncia, alla difficoltà di accettare e farsi accettare (molto Truffaut, tra accattoni e umanissimi replicanti), un'osservazione finale merita lo stile di scrittura. Referenziale, oggettivo, paratattico e sequenziale, con enunciati spesso aforistici che condensano efficacemente le tesi emotive, si apre ad improvvisi squarci lirici (“il lirismo mai pienamente riconosciuto del naturalista Verga”), particolarmente suggestivi e riusciti quando tracciano intense, mai convenzionali immagini di Roma. E “i cieli scorticati delle precoci primavere romane restano sempre uguali, trofei incustoditi che non si rubano e non si perdono […] mentre una bolla rossastra rappresa sul vetro illustra il declino del giorno e un'altra magnifica primavera, trionfante nei papaveri fiammeggianti e negli aspri rami di fichi cresciuti selvaggi fra le crepe dei muri, sembra spargere intorno al cielo di Testaccio la sua sovrana indifferenza” (passim).
“Prosa lirica? A professo', ma cos'è?” (pp. 224-225, prima prova Esami di Stato)...il candidato non sapeva che il commissario esterno ne era un esponente né mai lo saprà, ma questo a Penny non cambia la vita.
Marco Camerini
La grande corsa all'oro digitale. NFT
“Passione o investimento? Creatività o speculazione? Di certo rivoluzione”
di Giada Bassetti e Daniele Pozzi
Era l’agosto del 1896 quando tre avventurieri trovarono le prime pepite d'oro nel fiume Klondike, nel territorio dello Yukon, laggiù nel selvaggio Canada. Da allora la valle di Rabbit Creek dà vita a tante di quelle leggende e avventure che ancora oggi sembra di sentire l’eco delle storie di Dawson city e dei cercatori provenienti da ogni parte del mondo per cambiare la propria vita dall’oggi al domani.
Ma a guardare con gli occhi delle cose successe, come sempre accade, ci si accorge facilmente che ad arricchirsi furono per lo più gli spacci alimentari e i venditori di setacci e utensili per lo scavo, che in un baleno fecero schizzare alle stelle prezzi e guadagni.
Che c’entra tutto questo col mondo digitale degli NFT? Il metaverso non sembra certo la terra degli Inuit, né i suoi naviganti brandiscono pale e setacci.
A distanza di due secoli la corsa non si arresta e si evolve. Nelle lande in fermento del mondo virtuale interconnesso a scintillare oggi sembrano proprio essere gli NFT. Certificati da tutti i maggiori organi di settore, i Non-Fungible-Token sono ufficialmente seduti sul trono dell’“investimento perfetto”.
Attirati da facili guadagni sbandierati dall'esercito delle scimmie, replicate come bulloni in catene di montaggio da algoritmi matematici, milioni di artisti si riversano oggi – con jpeg, gif, 3D, mp3 e 4 e via dicendo – nel mare magno di blockchain, wallet, broker online e criptovaluta.
Il fascino dell’universo virtuale e la voglia di esclusività si fondono solleticando sogni e miraggi di ideatori e compratori. Nulla di male, quindi, a volersi tuffare in acque tanto attraenti. La scoperta e la conquista sono la linfa dell’umanità. Ma nessun esploratore che si rispetti può avventurarsi senza le giuste “armi” della conoscenza.
Diamo inizio allora al nostro viaggio, suddiviso in tre puntate, con meta e con verso, puntando il mirino sugli NFT e la bellezza dell’arte, consapevoli che le tecnologie sono un arricchimento e mai una sottrazione per chi le modella con qualità.
Cominciamo subito col dire che sono proprio gli strumenti la prima arma, in fondo per ogni pepita c’è un setaccio, per ogni cercatore una pala.
Occorrono: curiosità, fame di conoscenza, dimestichezza informatica, conoscenze economiche q.b., e non per ultimi talento e creatività.
Analizzeranno i “certificati digitali di unicità” in tutte le loro sfaccettature, dalla creazione alla possibile vendita, passando per le varie operazioni propedeutiche, approdando poi alle speranze di quella che non si limita a essere semplice innovazione, ma prende i caratteri di reale rivoluzione.
In questo scenario denso di promesse futuribili, l’identità delle opere d'arte ha la missione precisa di imporsi sulla logica replicante del digitale, attraverso il suo primo fondamento: l'unicità.