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HIKIKOMORI e Metafora del Porcospino.
di Ludovica Masella e Dino Masella
 
Artur Schopenhauer in una raccolta di scritti minori nota come “Parerga undParalipomena”, al capitolo XXI, ci parla del dilemma del porcospino. “Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione. Così il bisogno di società, che scaturisce da vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’un verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l’uno lontano dall’altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere. A colui che non mantiene quella distanza, si dice in Inghilterra: Keepyourdistance! Con essa il bisogno del calore reciproco è soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per nondare né ricevere sensazioni sgradevoli.”
Il dilemma del porcospino è lo stesso degli esseri umani nei rapporti interpersonali, ovvero trovare la giusta distanza.
In Giappone si è osservato il fenomeno dell’“Hikikomori” che significa stare in disparte, isolarsi, forse come ribellione alla cultura dell’ultra competizione, dell’arrivare primi ad ogni costo di farcela ad ogni costo e ha riguardato circa un milione di giovani (prevalentemente maschi 90%) tra i 17 e i 30 anni (in Italia sembra che siano circa 100000). Il fenomeno porta ad un graduale ritiro sociale (scuola-lavoro-sport) con allontanamento progressivo dalla vita reale e fuga nella realtà virtuale. L’estrazione sociale è medio-alta (SaitoTamaki, 1998) e si tratta di individui intelligenti, sensibili,soli, con screzi narcisistici e di autocompiacimento. È stata attribuita la causa del disagio all’assenza della figura paterna, al contesto sociale e familiare conforte interdipendenza madre-figlio. La madre di un Hikikomori non interferisce con l’operato del figlio, non lo ostacola, non si rende conto della grave patologia sociale in cui sono entrambi immersi, in attesa che cambi. L’Hikikomori, andrebbe decontestualizzato, lontano dalla casa di origine (magari in una comunità in cui sono presenti altri Hikikomori) e lasciato interagire autonomamente.
L’ABITO FA IL MONACO?
di Annalisa Laudando
 
Un vecchio proverbio popolare recita: “L’abito non fa il monaco”, utilizzato proprio per ricordare che molte volte l’apparenza non corrisponde alla realtà. Ma ne siamo proprio sicuri? Spesso ci si ferma a considerare l’aspetto superficiale di chi abbiamo innanzi, a maggior ragione se ci si riferisce ad una donna, in quel caso si rischia di innescare vere e proprie dispute tra esperti del “bon ton”, perbenisti e moralisti. L’immagine estrinseca di ciascuno rivela sempre qualcosa di ciò che siamo intimamente e della propria identità, ma la domanda è: “siamo davvero certi di ciò che gli altri percepiscono effettivamente di noi?” Quando si tratta di donne, o meglio ancora di giovani ragazze e adolescenti, evidentemente è difficile spogliarsi di stereotipi e pregiudizi e restare oggettivi nell’esprimere pareri, poiché, se si indossa una minigonna troppo corta, dei tacchi a spillo, camicie succinte e top scollati, si cade facilmente nei luoghi comuni e nei soliti cliché. Allora chiediamoci sinceramente: cosa significa oggi per una donna “vestirsi” e, soprattutto, qual è il modello ideale di eleganza, o quali i parametri quantitativi/qualitativi a cui far riferimento? Nei luoghi di lavoro pubblici o privati, già da qualche anno, si sente parlare di “dress code”, letteralmente “codice di abbigliamento”, che fa riferimento ad un insieme di regole scritte, o più spesso tacite, relative all’abbigliamento da indossare in determinati contesti ed occasioni pubbliche o private; ovviamente, il dress code, dovrebbe essere sostanzialmente percepito come una forma di rispetto di sé stessi e contestualmente degli altri. Anche nelle scuole esiste un dress code più o meno esplicito che, ovviamente, diventa parte integrante dei singoli regolamenti di istituto e/o dei Patti educativi di corresponsabilità, strumenti che coinvolgono attivamente alunni, genitori e personale scolastico per una corretta interlocuzione e partecipazione alla vita della comunità educante. La predilezione di un capo di abbigliamento, piuttosto che un altro, rispecchia comunque la libertà di scelta esercitata da ciascuno, il proprio modo di esprimersi e di enunciare il proprio gusto, i propri canoni di bellezza e di eleganza. Certo, per un adolescente, gestire la propria immagine diventa più complesso, in quanto si è ancora in quella fase della vita in cui si va alla ricerca spasmodica di una personale dimensione espressiva, insomma della propria “originalità”. La scuola è un’istituzione formale della società e, in quanto tale, basata su valori etici, regole e principi morali, la cui condivisione risulta fondamentale tra chi, come studenti, docenti, dirigenti e personale scolastico in generale, vi trascorre quotidianamente il proprio tempo; altrimenti si corre il rischio di percepire il tutto come semplice imposizione, o peggio ancora come strumenti coercitivi e limitanti della libertà altrui. I ragazzi hanno il diritto/dovere di esprimere sé stessi, attraverso le proprie idee e nel rispetto dell’altro, di imparare a leggere le proprie emozioni, a dargli forma e ad attribuire loro significato. Il clamore mediatico suscitato negli ultimi giorni dai fatti di cronaca relativi agli episodi accaduti in due licei romani ha investito in pieno la scuola, infiammandola di polemiche e innescando pesanti contraddittori e moti di condanna da più parti, mettendo così in discussione proprio la capacità interlocutoria degli adulti nei confronti dei ragazzi.
 
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