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Lady Macbeth, Berta Isla e le altre: tutte le donne di Tomás Nevinson.
di Marco Camerini
 
Chiedere a Javier Marías il motivo che lo ha indotto a scrivere Tomás Nevinson (Einaudi 2022) – per sua ammissione “non precisamente il seguito” del fortunatissimo Berta Isla (2018) con il quale “forma una coppia”[1] – equivale forse a chiedere, letterariamente, al protagonista – padre inglese e madre spagnola, occhi inquieti e inquietanti, brillante, impenetrabile, fascinoso come (a scelta) un pilota anni ‘40/un musicista/un attore alla G. Philipe, miracolosamente versato nelle lingue e negli accenti, cultura oxoniana sconfinata che gli rende familiari Jacopo da Varagine, Shakespeare, Th. Becket, Baudelaire, i Salmi, Blake, Eliot e l’intera letteratura russa – le ragioni del ritorno nell’Intelligence inglese in cui era stato reclutato forzatamente con un clamoroso inganno che ha trasformato la sua vita in una “tristezza dolorosa, segreta, macchiata di nefandezze e menzogne”[2] e sul quale non sveliamo nulla per non togliere il piacere di leggere proprio Berta Isla[3]. Negli anni ’90 i servizi segreti non sono più quelli dell’iniziale apprendistato: prevalgono indolenza, sconcerto, confusione, passività, spesso iniziative autonome dei quadri intermedi, gli ordini giungono dalle multinazionali (e “lo spionaggio industriale è del tutto privo di fascino”), la caduta del Muro ha congelato la sensazione di minaccia continua post anni ’60, “l’Ulster è una noia infinita dopo Mayor” (ma le peggiori idee possono tornare) e Germania est/ovest non esistono più, come “il paranoico fronte balcanico percorso dalle guerre jugoslave”. Vale comunque sempre la logica “sono qualcuno e non sono nessuno. Ci sono ma non esistono, o esistono però non ci sono. O non fanno quello che fanno o quello che fanno loro non lo fa nessuno. Semplicemente accade”. Congedatosi consensualmente nel 1994 scoperto il raggiro e rientrato a Madrid dopo 12 anni di latitanza forzata come ospite confidenziale di una famiglia perduta, più per “tenera reminiscenza d’affetto” verso figli che ha visto a malapena nascere e “un simulacro, una parodia, un’ombra” – non importa – di ritrovato rapporto con la “mora, temperata, allegra e imperfetta” Berta che pure non lo respinge (“non si rinuncia ad un fantasma che si ama: a un marito inutile, sconfitto, introverso e uggioso sì”) né riesce ad odiarlo “per curiosità o distrazione”, Tomás Nevinson “interrompe la quiescenza” e le (auto)giustificazioni, rivolte a se stesso prima che al lettore, costituiscono uno degli aspetti più suggestivi del libro. Vi è indotto per noia, livore, presunzione, vittima di un vuoto abulico, di abitudini perdute ancorché detestate, “di ricordi urticanti”, di una indesiderata nostalgia per l’eccitazione scaturita da missioni delle quali sfugge (deve sfuggire) il disegno complessivo che “avvelena e soggioga”. Non si è mai del tutto fuori e basta un passo per ricomparire perché “diventa insopportabile “tornare ad essere nessuno dopo che si è stati qualcuno”, pur vivendo nel rischio e nell’impostura, e si è creduto di “poter fare inarcare un sopracciglio all’universo, alterare con la propria influenza il corso dei destini altrui, produrre un effetto sul mondo, far accadere – semplicemente accadere – un evento di portata epocale. Questo anche se la sensazione – “indifesa, tormentata, disorientata”, avvertita magari attraverso lo sguardo di una collega emergente che vede in lui un eccentrico trofeo dei tempi eroici della Guerra Fredda – è che la propria storia si sia trasformata in “antichità” e che “tutto sarebbe stato identico se non avessi mosso un dito [anche per sparare], se non fossi esistito e non mi fossi sporcato le mani”. Errore fatale, regressione, male incurabile, alla fine deve ammettere di sentirsi a suo agio nella solitudine inquieta e inorridita di un’identità presa a prestito che risparmia, se non redime, la coscienza di atti terribili nell’illusione di essere l’archivio, il registro, l’ingranaggio di un meccanismo che non dimentica ciò che gli altri rimuovono per stanchezza od opportunismo e opera nell’interesse ultimo e superiore dello Stato. Del resto l’unico modo per non porsi letali domande sull’inutilità di quello che si è fatto in un passato “impossibile da tenere in riga, rugoso come lo sono di solito i passati, pieni di incisioni, pieghe, iscrizioni che non si cancellano”, è continuare a farlo. La sola possibilità di giustificare una condotta torbida è continuare ad intorbidarla, alimentare a aver cura delle sofferenze per non venirne travolti (non diversamente dalle organizzazioni terroristiche, mafiose o dagli assassini seriali), quasi nessuno ha il coraggio di Lady Macbeth, l’immancabile presenza shakespeariana del romanzo, come Enrico V lo era stato nel precedente: “Abbiamo commesso delle infamie senza trarne profitto”. Dagli agenti segreti la gente comune esige sicurezza senza macchie sulla coscienza (“se sbagliano sono negligenti incapaci, se raggiungono lo scopo brutali assassini”), lentamente ci si domanda se ogni azione, falsità, astuzia fossero necessarie e per non soccombere al rammarico/rimorso si può solo tornare a combattere nemici concreti incarnazione del nemico astratto che rischia di annientarci, non rimane “che percorrere la via sbagliata e sbagliare ancora” costruendosi l’alibi che ognuno, inevitabilmente, deposita la propria devozione da qualche parte o in una persona…come Tupra, l’alto esponente dell’M15 britannico che, intuitene le non comuni capacità, lo incastrò e non esita a richiamarlo perché dai Servizi non si esce, si è solo in permesso/aspettativa sino a quando “non si torna utili alla difesa del Regno”. Erudito, sprezzante, cinico, spietato, “occhi canzonatori e placidi color ghiaccio marino” capaci di trasmettere  brividi e fiducia, apprezzamento o crudeltà, conoscitore (colluso?) della criminalità del West End londinese anni ’70 prima di servire la legge più instabile ed equivoca (gli permette di osservarla e ignorarla insieme) per scongiurare le emergenze planetarie, cita il Bardo a memoria, annuncia quasi sempre la morte, “la sfiora, la ricorda, la suggerisce, la impone”, veglia costantemente per difendere l’ordine – “nessun Signore vigila sulla città” – spargendo intorno “brina venefica, minacce inquietanti, terrore e menzogna”. Nulla di facile e lineare emana dall’assoluto coprotagonista del plot (svolgeva un ruolo secondario in Berta Isla), solo “complicazioni, intrighi, nodi” insieme ad una subdola abilità nell’imporre le proprie regole/condizioni senza accettare che altri lo facciano per lui (“i suoi interessi e i suoi morti sono segnati da tempo con una freccia o un bersaglio, la loro condanna decretata in un ufficio o in una pub”) e ad una insinuante forza di persuasione – fascino, a suo modo – in grado di conquistargli lealtà incrollabili quanto inspiegabili esattamente come quella di Nevinson, contraddittoriamente attratto da lui al punto da tacitare disprezzo e rancore (il che non si giustifica pienamente a livello di intreccio). In una cittadina del nord-ovest della Spagna – nome di fantasia Ruán – nobile, austera, orgogliosa del suo passato eroico (e franchista), capace di accettare con temperanza e stoico fatalismo spacciatori, estorsori, medici di pochi scrupoli insieme a turisti, arrotini e postini anni ’50, fiume brumoso, pittoresco “Barrio Tinto” e “mille campane impazzite” a scandire il tempo lento e ipnotico di una comunità chiusa e solidale, si sono stabilite dal 1987 (l’asse cronologico giunge sino al 2020, il presente della scrittura, 1997 l’anno degli fatti narrati) tre donne: Inés Marzán – nubile, “corpo vorace senza pudori né timidezze, soggiogamenti o tirannie”, smisurato e intimidatorio come in un personaggio di Almodovar, amabile e lieve fra i tavoli del suo ristorante, taciturna, scettica, indifferente e gravata dal peso oscuro di esperienze inconfessabili e rimosse – Celia Bayo – insegnante, moglie di un assessore comunale eccentrico e corrotto, volto lunare, intelligenza non impertinente, altruista, spontanea, permissiva, “cuore semplice” privo di scheletri nascosti (o forse non vuole svelarli) – e María Viana, giunta nella comunità già sposata a Folcuino Gausi, facoltoso e brutale costruttore dell’alta società nobiliare, agiata, cosmopolita, involontariamente sensuale, naturalmente seducente, intimamente riservata e disillusa, irraggiungibile “come un dipinto o un’immagine di celluloide”. Una di loro è (o…dovrebbe essere e questa irrisolta ambiguità risulta molto intrigante applicata com’è ad una trama gialla) una militante basca dell’ETA di origini nord-irlandesi – pentita, latitante, “dormiente”? – prestito dell’IRA (“la banda cattolica più antica e navigata”) e attiva nei due tragici attentati dell’87 a Barcellona e Saragozza, superati per clamore emotivo solo dal rapimento e dall’uccisione a sangue freddo, nel luglio 1997, del giovane consigliere comunale Miguel Ángel Blanco, meticolosamente ricostruito a livello testimoniale in quello che è certamente anche un appassionato esperimento di romanzo storico contemporaneo. Le persone si stancano dell’odio, le organizzazioni criminali – cieche, fanatiche, granitiche – no, “la crudeltà, la fede, la follia, la stupidità sono contagiose” e il mostro del terrorismo deve essere schiacciato: lo scandalo recente dei GAL, formazioni paramilitari clandestine anti-ETA sotto i governi socialisti di F. Gonzales, lega le mani al governo Aznar, il CESID preferisce lasciar fare ai colleghi inglesi, quindi a Tupra, e spetta a Tomás (“educazione all’antica, le donne vanno protette e risparmiate, depositarie del dolore e della memoria”, d’altra parte non si ebbero riguardi per Giovanna D’Arco, Maria Stuarda e Maria Antonietta che chiese scusa al boia per avergli pestato il piede…una regina), voce narrante sdoppiatosi, dalla V parte, nell’alter ego Miguel Centurión Aguilera cui si riferisce in terza persona, smascherare l’estremista, fornire le prove per la sua incriminazione o, in caso contrario…
Ci fermiamo rigorosamente qui per non svelare nulla della seconda parte, la più felice dopo una prima a tratti macchinosa e didascalica per l’enfatizzazione eccessiva dei dati documentali e la massiccia presenza di citazioni (dirette, rielaborate, parafrasate) minuziosamente elencate dallo scrittore nei ringraziamenti conclusivi. Certo l’ambivalenza gnoseologica che connota la sua produzione – riflessa in una parallela ambivalenza narrativa – viene, almeno apparentemente, elusa/superata dalla volontà di analizzare le dinamiche latenti, persino inconsce, dello stragismo iberico anni ’80-’90. I terroristi non sono patrioti-rivoluzionari-credenti ma solo assassini, tanto più astuti e spietati (per istinto, pulsione, necessità) quanto più idolatrati e ritenuti degli idealisti e dei liberatori circonfusi di un’aura abnegata ed eroica. “Emotivamente blindati e mentalmente svuotati, per loro gli altri non esistono, sono solo tiranni o figli di tiranni, portano impresso un marchio d’infamia, non dovrebbero sopravvivere per il bene del popolo puro, della brava gente, dell’impero, della liberazione”. Non dimenticano mai nulla (come i servizi segreti), non hanno tempo per dispiacersi solo occupati a rimanere impuniti, giustificarsi, convincersi di aver prestato un servizio importante alla nazione e alla causa. Inevitabilmente nel combatterli “ci sono cose che non si fanno. Se si fanno non si devono dire. Se si dicono si devono negare” e cosi – accanto alle tematiche canoniche della perdita/ricerca di un’individualità mai definita né definibile, del caleidoscopico disgregarsi di una realtà enigmatica, dell’eros e del fantasma femminile declinato nelle sue molteplici varianti – si affianca, alla fine imponendosi, la riflessione sulla colpa, sul male, sulla morte indotta, provocata, voluta. Uccidere, al di là di ogni valenza morale e complessità tecnica “oggi ridotta ad una asettica finzione da videogioco”, ha in sé una drastica irreversibilità, ma potrebbe non essere un atto così estremo “se solo si sa quali delitti annuncia di voler commettere chi si uccide, quante vite innocenti si salveranno al prezzo di un primo sparo”, come accadde nella realtà F. Reck-Malleczewen, medico e scrittore cattolico, che poteva eliminare Hitler nel 1932 all’Osteria Bavaria di Monaco e, nella finzione, a Walter Pidgeon in Duello mortale di Fritz Lang (1941). Non si può essere pigri o sprezzanti e mancare l’occasione di eliminare chi produrrà orrori, “finendo magari di pagare personalmente lo scrupolo, il dubbio, il timore di imprimersi un marchio indelebile” e la giusticazione etica – ammesso esista – di aver liberato la società da una grave calamità il giovane Nevinson impulsivo e “irreprensibile” la conosceva bene. Ma agire allo stesso modo, sulla base di labili, non comprovati indizi, con un più di amaro disincanto e ripiegata incertezza, nei confronti di una donna che dopo dieci anni avrebbe potuto/voluto redimersi e costruirsi un’esistenza diversa? Codici e tribunali sanciscono la decadenza dei reati, pongono un limite al castigo, “passati venti anni qualunque fatto accaduto si cancella e i conti con l’omicida si possono regolare solo al di fuori della legalità”. O forse nulla deve essere cancellato, mai. Le atrocità di secoli sbiadiscono, diventano astratte, si tramutano in racconti, quelle che ancora si ricordano cadono in prescrizione per il consesso civile (quale il confine con il giustizialismo?) ma non per chi le ha subite e patite. Suggestioni senza dubbio attualissime, comunque – mentre, a livello narratologico, viene (malamente) abbandonato un possibile, interessante sviluppo metanarrativo (cfr. pp. 296-299) – rimane la sensazione, non ce ne vogliano i cultori di Marías fra i quali ci annoveriamo per montaliana “lunga fedeltà”, che Tomás Nevinson perda, di misura, il confronto con Berta Isla. Ammesso tali confronti abbiano senso.

[1] J. MARIAS, Tomás Nevinson, Einaudi, Torino 2022, “Riconoscimenti e ringraziamenti”, p. 351.
[2] Fra virgolette le citazioni testuali N.d.A.
[3] Peraltro i riferimenti all’”antichissimo tranello” di 25 anni prima sono (sin troppo) frequenti: cfr. pp. 76, 111, 211, 249, 329, 372, 377 (il più ampio), 388, 414, 418, 435.
 
 
Gli sciacalli, la notte e le speranze dell’utopia: i racconti giovanili di Amos Oz
di Marco Camerini
 
Marco Il pamphlet Contro il fanatismo del 2004 segna un nodale discrimine tra due fasi ben distinte, ancorché complementari, della produzione di Amos Oz: una prima – Michael mio (1968), La scatola nera (1987), Conoscere una donna (1989), probabilmente la più amata dai lettori – che rivela la sua attenzione per lo svolgersi e l’intrecciarsi – spesso oscuro, inestricabile, percorso da latenti ed egoistici rancori – dei rapporti di coppia, scandagliati con perspicacia e originalità uniche e la successiva, connotata dall’avvicinamento alle criticità etiche dell’intolleranza di fronte, in particolare, all’urgenza – morale, prima e oltre che storica – di una pacifica risoluzione del permanente conflitto israelo-palestinese. Sorprende come nei racconti giovanili del 1965 Le terre dello sciacallo (Feltrinelli 2021), opportunamente tradotti e pubblicati, le tematiche legate ad entrambe siano, pure in una prospettiva embrionale, ben presenti ed espresse dal ventiseienne autore con una scaltrezza formale già matura che, di lì a tre anni, consacrerà il successo clamoroso e unanime dello splendido, citato Michael mio.
Così a storie caratterizzate da una prevalente tematica sentimentale, nelle sue molteplici, contraddittorie declinazioni – amore come morbosa, incestuosa seduzione (Le terre dello sciacallo)[1], sensualità fremente e irrequieta (Nomadi e vipera), spesso ambiguità, ipocrisia, diffidenza, silenzio consegnati ad una “scatola nera” che le “braci” non possono distruggere (Fuoco straniero) – se ne affiancano altri in cui centrale è la riflessione etico-politica, nelle direzioni che segneranno i successivi esiti del suo percorso narrativo: l’antimilitarismo (l’Itchech de Il monastero trappista, fratello in pectore degli eroi di Re Davide e dei Ghideoniti, “selvatico e geloso come il profeta Elia”[2], ruggisce ansimante e bestiale di eroismo guerriero nel furore omicida e disumano di una missione punitiva antisiriana), il conflitto epocale fra la prima e la seconda generazione del sionismo militante, problematica, malinconica, “incapace di amare e odiare sino in fondo, di entusiasmarsi, indignarsi, tanto meno disperarsi […] la terza sarà ispirata e gloriosa come quella dei Padri” (La via del vento), le ragioni della moderazione e del dialogo con la galassia araba[3] contro “l’attivismo sfrenato e l’ebbrezza di leader giulivi e sventati” come “il pifferaio magico Ben Gurion che ha condotto tutti al massacro e all’odio eterno fra due comunità”[4] (Fuoco straniero), infine la fede tenace nei principi del movimento laburista ebraico che ispirarono la guerra indipendentista del ’48 e la desolata costatazione del loro graduale logoramento in Redimere il mondo, forse il racconto ideologicamente più emblematico e strategico. Donne formose agghindate all’occidentale, i “nuovi ebrei, figli dei figli dei Maccabei, allegri e sfacciati nelle loro macchine colorate”, una “perfida scollatura” nel vestito della sorella Ester e la corrotta America che ha trasformato in una pagliacciata hollywoodiana lasciva la palingenesi della Terra Promessa dove risuonano “non salmi, ma canti perversi e sfrenati”: per il protagonista – tormentato dall’angoscia e dal rancore, forse non casualmente privo di nome – “lo Stato di Israele ha rinnegato la sua storia, si è venduto e infangato, gli Ebrei, popolo profondo e terribile, sono diventati una ciurmaglia di levantini chiassosi e corrotti destinati a dissolversi […] nel pieno del folle banchetto i capi, sbronzi e storditi, hanno tradito il popolo, il popolo ha tradito loro, gli uni e gli altri hanno tradito la crudele bellezza dell’utopia”. La sua fine, assai più ingloriosa, sarà quella di Giuda e i trenta denari andranno ad una prostituta dei nuovi quartieri di Gerusalemme, biblico, dissoluto emblema del disfacimento. Tutte le suggestioni, comunque, si configurano e assumono rilievo attraverso la cornice narratologica all’interno della quale si svolgono gli intrecci (tranne l’ultimo, Su questa terra cattiva, parabola agiografica del sacerdote ghileadita Iefte): il kibbutz – della Samaria, della Galilea – vero protagonista trasversale del libro grazie al quale i singoli caratteri (pure descritti con originalità, alcuni sono seriali) acquisiscono piena e convincente autonomia letteraria e la raccolta una sostanziale unitarietà: baracche dalle tettoie di lamiera bollente, alloggi militari ricoperti di calce bianca, magazzini incandescenti e dispense arroventate “che non patiscono la tenebra”, nidi, scuole, efficienti segreterie tolleranti e alacri tipografie che sottraggono all’oblio gli scritti anni ’30 “sobri, intensi, intrisi di spiritualità, dolore e visione” dei primi coloni per (ri)proporli ai discendenti degli anni ’60, smarriti se non del tutto sviati e ribelli. I rintocchi del generatore – vitale “cuore pulsante dal sordo rumore di tamburo lontano” accende e alimenta una “corrente preziosa e occulta” nelle ordinate file di casette dal tetto rosso – tubi di irrigazione, “vene salvifiche e palpitanti” dei prati assetati, sentieri di cemento sfregiato, siepi, rottami, agrumeti fragranti, filari di palme “dalle chiome sottomesse”, campi irrorati di “rugiada pesante” che evapora sotto un rovente cielo bianco dove si insegna che “uccidere una vittima innocente è un peccato, farsi uccidere da vittima inerme come Abele il secondo peccato” e gli ulivi, “vegetazione triviale e spudorata che, con fame fervida quasi violenta, buttano le loro radici nella terra pesante simili ad artigli affilati”. È un mondo fatto di cerchi il kibbutz, quello opaco e lontano dei monti e dei deserti, il cerchio delle vigne e dei frutteti “lago che stormisce di suoni e sussurri (i territori tradiscono al crepuscolo, non sono più familiari e addomesticati “sbuffano miasmi di minacciosa ostilità”) e il perimetro delle luci domestiche, difesa malsicura incapace di fermare “i sibili e gli odori del nemico che toccano la pelle come denti”. I suoi fondatori negli anni ’20, quelli “della prima pietra e del primo solco d’aratro”, forgiati dalla rabbia, dalla dedizione e dalla nostalgia per i fiumi e i boschi d’Europa, “accigliati e inflessibili continuano a piantare disperati nelle zolle incandescenti le loro pallide unghiate” sognando una vita nuova, immemori del tempo e del luogo. Gente che non lascia correre, non crede nella sopportazione (magari a certi ideali tolstojani e ad un vangelo sociale di accogliente, generoso altruismo verso gli abitanti affluiti dall’Est e le tribù del Neghev), risentiti più che sbigottiti nei confronti di chi abbandona la comunità “senza spiegare, discutere, accusare o difendersi”, animati da dedizione, sangue freddo, cameratismo, paziente speranza perché “c’è un legame fra tutto ciò che è al mondo. Un solo senso hanno tutte le opere, le opere belle e le opere brutte. Chi procede nella tenebre vedrà una gran luce e Dio – cui bisogna avvicinarsi non come farfalla al fiore, ma come farfalla al fuoco – gioisce dell’armonia nascosta che sta dietro le sofferenze apparenti” mentre tra feste, riunioni, conferenze, giornate di studio, incursioni militari e immani opere agricole la vita quotidiana scorre non sempre conforme all’illusione di una collettività solidale, combattiva e credente.
A soli ventisei anni Amos Oz si rivela già in possesso di una scrittura poetica, spezzata, con frequenti ricorsi a sequenze paratattiche nominali ellittiche del verbo, personificazioni, procedimenti sinestetici, aperta a soluzioni assolutamente sperimentali come in Pietra bucata e Le terre dello sciacallo dove si passa dalla terza persona di una voce narrante esterna alla prima interna, spesso in pensiero indiretto libero, dei personaggi e di un’anonima figura corale che ricorre al “noi” e sembra coincidere con l’autore vissuto nel kibbutz Hulda sino al 1986. E non manca un metatesto programmatico, Tutti i fiumi, intrigante riflessione sul valore/funzione della parola scritta la quale insegue, distorce, plagia la realtà che “compare per natura davanti agli occhi tutta in una volta” – questa è la Letteratura per Nabokov e l’Eshkol Nevo de L’ultima intervista – si aggrappa alla memoria che impedisce alla storia di procedere (esiste un codice dell’ordine narrativo? Fabula e intreccio, difficile e inopportuno corrano paralleli) e, insieme, sul verso “incarnazione lucida, concentrata, fredda come il ghiaccio di combinazioni fondamentali. Chimica. Come una soluzione. Come cristalli di veleno”. Ma la cifra stilistica dominante è certamente il vibrante lirismo, particolarmente evidente in alcuni topoi descrittivi ricorrenti nelle diverse narrazioni, primo fra tutti la notte “di stelle remote – sole fra silenzio e silenzio nelle nere immensità – trasparente luminescenza purpurea che avvolge con tenerezza le fronde e azzera le distanze fra gli esseri animati e la vita, cancella le asperità, deforma i contorni delle cose e imprime in esse un brivido algido, vitale, venefico. Notti del deserto impenetrabili, cristalline, vive e palpitanti, sfinite dalla calura che punge come schegge di vetro. Ammantate di vapore, percorse da squarci di nubi, scandite – come i battiti di un cuore testardo – dai canti dei nomadi sfiorano la luna che, stregata, spande il proprio languido pallore d’argento sul biancore dei sassi. Sì, chi va in cerca di un punto fisso nello scorrere del tempo e delle stagioni conviene ne ascolti gli echi: sbuffi di bestiame in lontananza. Un muggito. Un grido. Un trattore che ruggisce in un campo remoto, risate di giovani coppie che spariscono verso il uadi. Vento caldo”[5]. Anche un lancio di paracadutisti[6], un acquario[7], la morte in trappola di una preda[8], una raccolta di francobolli (gli appassionati di filatelia leggano le pagine 163 e segg.!) diventano poesia, finanche un’azione di guerra con “i suoni della battaglia che si intonano mentre la tosse densa e rabbiosa dei colpi di mortaio, rimbombi spessi e rauchi, uno stridulo pianto di archi si perdono nel frastuono di folli percussioni sino a quando il silenzio rammenda gli squarci con pazienza morbida e compassionevole”. E gli sciacalli a legare e scandire, anche metaforicamente, le pagine di un talento destinato a confermarsi di lì a poco uno dei massimi scrittori del secondo Novecento. “Scheletrici, laidi, grigi, occhi feroci che sparano scintille di astuzia e sconforto, malati di rabbia e pazzi di fame emettono vaghi e remoti lamenti di minaccia, trionfo, terrore misti a grida di adulazione e disperazione, scossi da accessi di pianto e riso sguaiato quasi umani. Irrimediabilmente cattivi e sacrileghi si radunano, neri officianti di una cerimonia di lutto, per celebrare un rito occulto e sanguinario”.
 
 

[1] In grassetto i titoli dei racconti.
[2] Fra virgolette le citazioni testuali.
[3] “Nella vita il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo, determinazione o devozione ma fanatismo e morte” (AMOS OZ, Contro il fanatismo, Feltrinelli 2004).
[4] AMOS OZ, Giuda, Feltrinelli 2014.
[5] Passim dal testo. Le citazioni, come le successive, sono state liberamente collazionate. N.d.A.
[6]  La via del vento, pp. 58-61.
[7] Una pietra bucata, pp. 207.
[8] Le terre dello sciacallo, pp. 16-17.
 
 
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